martedì 25 ottobre 2011

Essere una barzelletta non fa ridere

Mi sono rassegnata a guardare un lampo di telegiornale, in questa lunga pausa. Avevo smesso dall'assassinio di Gheddafi - per me si chiama così, che piaccia o no - non perché avessi una simpatia per un dittatore autore di stragi e uccisioni senza fine. Semplicemente, questa fine mi chiariva ciò che avrei dovuto avvertire da tempo dentro di me.

Eravamo - o ci credevamo - la patria del diritto (per questo, immagino, accogliamo un dittatore sanguinario come un amico, poi ci alleiamo con altri contro di lui e stiamo vagamente zitti quando lo uccidono dopo la cattura). Adesso siamo la terra delle barzellette. C'è solo una fregatura, racchiusa in una preposizione: ridono DI noi, non con noi.

Per questo sconvolgo gli amici greci, ma sono convinta di ciò che affermo: tremo di più a vivere e lavorare in Italia, che non in Grecia. Perché là il senso del dramma è devastante, scalcia come un bimbo appena nato. Qui siamo fermi ancora al ridicolo.

Quante volte all'estero mi sono sentita riversare addosso i complimenti per la simpatia del popolo italiano. Se si andava in profondità, quanti poi ti facevano capire che però lavorare con noi destava un certo prurito, eco di un timore.

Ingiusto? Forse. Ma oggi vedo che ancora troppi hanno voglia di ridere, anche perché i loro privilegi non si sfiorano nemmeno. Ci sono brave persone che mettono in guardia, in ogni settore, penso persino in quello della politica e lo dice l'anarchica (pacifica).

Ma pochi sembrano ascoltarli. Forse perché siamo storditi dalla risata che scaturisce dall'ultima barzelletta. Ma quella barzelletta, finale e devastante, forse non ce ne rendiamo conto... rischiamo di essere noi.

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